Sunday, December 13, 2009

A Fat Tale


Ho deciso di raccontarvi una storia. Come tutte le storie che si rispettino inizia con un bel “C’era una volta...”


C’era una volta un Bambino Grasso ed ingenuo, ma talmente ingenuo da non sapere ancora di essere né grasso né tantomeno ingenuo, infatti oltre ad essere di una magrezza quasi impressionante, si destreggiava spigliatamente tra le sue coetanee, facendo stragi di cuori e mattanze di occhi da cerbiatto. Essendo un bambino, e non avendo ancora avuto le turbe psichiche dell’adolescenza, degli ormoni, delle ragazze e tutto il resto, non lo si poteva affatto considerare affetto da un qualche disturbo dell’alimentazione: mangiava abbondantemente, beveva quanto bastava, faceva la cacca regolarmente, ma non riusciva a fare accrescere quello strato adiposo che alcuni suoi coetanei cullavano così dolcemente. Non che a lui importasse gran ché, ma il ciccione nascosto dentro di lui scalpitava e impazziva dal dolore, sbraitava e imprecava (acciderboline e ciribiricolccole) bramando un giorno di riuscire a conquistare la libertà di quel corpo pelle ed ossa. Erano gli anni ottanta, la seconda metà, quando il mondo era ancora diviso tra buoni e cattivi e nonostante non si sapesse con chiarezza distinguere quali fossero (i buoni ed i cattivi intendo), gli schermi televisivi più convessi che mai mandavano in onda sogni in forma di cartoni animati giapponesi, la Commodore spopolava con il suo 64 e con un Amiga che ai ventiseienni di oggi ha insegnato l’assuefazione per l’informatica e l’amore per la tecnologia. Le giornate scorrevano lunghe e senza fine, le settimane duravano mesi per poi tramutarsi in battiti di ciglia quando ci si fermava a riosservarle. D’Autunno si sognava con ansia un Natale finalmente nevoso e per tutto il resto dell’anno quelle quattro settimane di oratorio estivo erano l’unica meta agognata, dove il tempo per la noia era così risicato che con quella banconota con il volto di Galileo datati da tua madre la mattina, si poteva comprare un gelato e venti caramelle o spenderla tutta in cicche, per trovare le figurine mancanti di Poggi e Volpi che nessuno aveva mai nemmeno visto lontanamente con il binocolo.



Intanto il ciccione che è in ogni individuo, si anche in voi, si dimenava: “Perché mangi tutte quelle caramelle e merendine e non mi concedi la libertà?” ma il Bambino Grasso Che Non Sapeva Ancora Di Esserlo non lo ascoltava, anzi non lo sentiva nemmeno, talmente si crogiolava nel suo autocompiacimento dell’essere smilzo.
Passò qualche anno che il Bambino Non Ancora Grasso trascorse tra alti e bassi, lunghi e stretti, spessi e sottili, senza mai ascoltare il ciccione che era in lui, non dandogli la minima chance, la minima aspettativa, la minima briciola di pasticcino.



Fu così che una sera, dopo l’ennesima iniezione di penicillina in una partita contro gli Orecchioni vinta in extremis per 2 a 1 con un calcio piazzato allo scadere, il ciccione prese il controllo: la guardia era abbassata, il Bambino Magro era spossato per la malattia o semplicemente pensava per un momento a quanto era bella la vita da non-grasso facendo progetti per tentare di conquistare il mondo. Il Ciccione, con un’abile e scattante manovra indegna dei suoi quasi 100 chili, relegò il Bambino Magro nel suo più profondo subconscio, incominciando a ingurgitare tonnellate di merendine del Mulino Bianco, quintali di Nutella, chili e chili di pattume, perdendo interesse per le bambine, lo sport e quasi tutte le relazioni interpersonali. Il dominio incontrastato di questo despota adiposo ebbe in questo modo inizio. Vorrei poter dire che il Bambino Magro fosse in qualche modo consapevole del suo stato di “non essere più”, ma la prigionia, insieme ai troppi zuccheri fagocitati, mandano il cervello in pappe, il pancreas al creatore e nemmeno la consapevolezza di avere le tettine poteva smuoverlo dal suo torpore. Ai primi giorni seguirono i primi mesi come ai grammi seguirono i chili di sovrappeso; con il passare degli anni i colori della vita sbiadirono intorno a lui: tutte le sfumature del rosso e del giallo persero calore, il blu e l’indaco si tramutarono presto in cineree alterazioni di quello che erano stati un tempo; quando anche il verde e l’arancione persero il loro significato di esistere, al Bambino Grasso non rimasero altro che il bianco ed il nero. Ormai il numero dei menti somigliava sempre più alle pieghe di una fisarmonica; l’addome, ormai simile a quello dell’omino Michelin, cascava sopra dei pantaloni larghi abbastanza per farci entrare il proprio padre; la schiena si incurvava e le ginocchia faticavano a reggere cotanto peso adattandosi in pieghe malsane.
A sua discolpa, Sua Grossezza il Lord dei Prosciutti non era del tutto stupido, anzi era ai livelli di intelligenza del suo prigioniero sottopeso; era curioso, imparava alla svelta e faceva galoppare la fantasia ad una velocità impressionante. Forse è per questo motivo che il suo dominio incontrastato durò così a lungo, è risaputo infatti che nessun sovrano mantiene il potere senza una buona dose di arguzia, intelligenza, sprezzo del pericolo e una scorta semi infinita di Tegolini del Mulino Bianco. Il suo impero infatti passò indenne attraverso i moti rivoluzionari della Pubertà, i sussulti della prima Adolescenza, tenendosi ben lontano dalle delusioni amorose, dalle ragazze ed a volte anche dagli amici con l’unico fine di preservare il potere.


Gli anni delle elementari volarono bassi tra frutta candita, cioccolate con panna ed il termine della Prima Repubblica; quelli delle medie si librarono senza apici di sorta a parte le elezioni del ’96 di cui si pagano i gli errori ancora oggi, ed in un ITIS sperduta tra Comasco e Varesotto, il periodo delle superiori volava pindaricamente tra una nuova Europa e la Genova del G8.






Una sera però, il vento cambiò. Ed esso non portava più con se né le fragranze della giovinezza, né i sapori del cibo ipercalorico, ma solo una nuova brezza di consapevolezza recondita e nascosta e repressa che raggiunse le oscure segrete in cui il povero Bambino Magro era rimasto rinchiuso per più di dieci anni. Il vento porta sempre con se un consiglio, per chi lo sta ad ascoltare, che sia un “mettiti il cappello che fa un freddo gatto” o “metti in piedi una Rivoluzione d’Ottobre”, poco importa. Sta di fatto che durante quella notte, il nostro eroe fuggì dalle segrete in cui per più di un decennio era rimasto rinchiuso. È una storia emozionante, ricca di colpi di scena, un paio di flashback, il maggiordomo immancabilmente colpevole ed un finale a sorpresa che coinvolge un prete, un viados ed il Governo Cantonale Svizzero, ma non è questo né il luogo, né il tempo per raccontarla.
Era ormai mattina quando, sfruttando le eccessive attenzioni di una guardia obesa per il proprio rumoroso deretano, quell’individuo che era stato il Bambino Magro si intrufolò nella sala del trono. Nascosto dietro i sontuosi tendaggi, passando accanto ad arazzi variopinti e quadri di vecchi canuti, poteva intravedere il monarca curvo sotto il peso dei suoi chili e spossato dal troppo cibo fagocitato. Gli occhi erano ancora vispi e sognanti, ma lo sguardo non sembrava felice né famelico, solo stanco, e quando incrociò quello del Magro Che Era Stato Un Bambino, con un sorriso sulle labbra Messer Porcello si dissolse in una grassissima bolla di sapone, lasciando dietro di se null’altro che un olezzo di strutto. Ed il Ragazzo Magro capì. Capì che il Grassone era sempre stato dentro di lui, che non erano nient’altro che la doppia faccia della stessa medaglia,la stessa metà di pandoro, i due culi dello stesso salame e che nessuno dei due poteva vivere senza l’altro in una eterna alternanza, in un eterno braccio di ferro tra bene e male, tra libertà dalle calorie e schiavitù dei dolci, tra obesità ed anoressia.
Ancora oggi l’Uomo Magro vive felice della sua magrezza, senza mai dimenticare quello che fu venticinque chili or sono, senza perdonare il bambino Grasso per avere, in un giorno così lontano, preso il controllo della sua vita. Senza perdonarlo per avergli fatto rimpiangere gli anni sprecati o rimordere le occasioni perdute, colui che fu il Bambino Magro ogni tanto, oggi, permette al grassone che è in lui di spassarsela per qualche minuto con un po’ di cioccolata o una scorpacciata di pane e formaggio, ed è ancora alla ricerca di una Donna che magari possa condividere con lui i ricordi di una infanzia trascorsa da Bambina Grassa.






Non possiamo salvare nessuno da se stesso.

Saturday, December 12, 2009

Mein Beruf


“Was machst du von Beruf?” È una delle prime cose che ho imparato in Germanico, insieme a “Wie geht‘s?” e “Deine Titten machen mich wahnsinnig!”.
Ebbene: cosa faccio di lavoro qui in Tedeschia? Beh se riuscite a spiegarlo a mia madre siete molto bravi, io non ce l’ho fatta. Non perché lei non sappia cosa sia un fotone o cosa sia un FPGA, ha studiato da infermiera mica da scienziata, ma credo che anche mio padre, che viene da una istruzione tecnica, abbia qualche difficoltà a spiegare ai suoi amici perché suo figlio, alla tenera età di 25 anni, abbia mollato casa, famiglia, lavoro, la fila di donne che lo aspettavano davanti al portone (sebbene la mia casa il portone nemmeno l’avesse) per andare in terra straniera a cercare fortuna. Beh partiamo dalla mia ditta, ovvero dove lavoro. La ditta non è mia, ovviamente, altrimenti sarei a godermi i miei decamila euro al mese con una birra e mille lire in mano; di sicuro non a scrivere sul blog.
Ecco io lavoro qui, non badate al grigio del cielo di Berlino, qui è settato come “default color”.





Ho la mia scrivania, il mio computer, un sacco di scartoffie, un bel po’ di disordine e l’accesso ad internet che in GA me lo sognavo la notte. Abbiamo la macchinetta del caffè espresso con riserva illimitata pagata dalla ditta, ma lo zucchero te lo devi portare da casa. Come, “perché?” Qui si pensa alla salute: caffeina si, diabete no. Per dirla tutta è un po’ un eufemismo la parola “espresso”, ma il suo porco lavoro l’apparecchio lo fa in maniera impeccabile, anche perché il mio collega polacco lo culla come fosse la sua nipotina. Fortunatamente il nostro caffè non è paragonabile al catrame liquido che ti servono le macchinette automatiche stile Polimi.



La giornata lavorativa inizia puntualissima: tra le 8 e le 11.30 più o meno tutti sono in ufficio e più o meno tutti fanno le proprie otto ore al giorno. Per quanto mi riguarda arrivo alle 9.05 e me ne vado alle 17.15, otto ore per il lavoro, 10 minuti di pausa pranzo. Si lavora per vivere non il contrario.
Prima cosa da fare, subito dopo avere acceso il computer, è controllare le innumerevoli e-mail che mi giungono sulla casella di posta elettronica del lavoro. Una od due alla settimana, di solito. Al contrario di quello che fa qualunque altro lavoratore italiano con a disposizione una connessione internet, mi sono imposto di non usare Facebook al lavoro, è una questione di correttezza, per cui non mi si venga a dire che cazzeggio al posto di fare il mio dovere. Ma in cosa consiste esattamente il mio dovere? Detta in parole semplici la mia figura professionale è quella di uno sviluppatore firmware (VHDL based) su piattaforme FPGA della famiglia Xilinx per applicazioni di management ed elaborazione di campioni provenienti da sistemi di misure fotoniche... Capito un cazzo, eh? Vediamo se ce la faccio a farvi un esempio. Un mesetto fa il capo mi dice che quello che prima si faceva fare al software, mo me lo devo smazzare io in hardware. Proviamoci, dico io. Dopo una settimana di schizzi, scarabocchi, bestemmie (in italiano), ore ed ore a pensare, ad interpretare ed evidenziare, ho partorito questo:


first


Come potete leggere chiaramente, il tutto funzionava benissimo. Peccato non facesse il lavoro per il quale era stato progettato. Allora ho tirato fuori questo dopo circa un’altra settimana e mezza:


final


Ovviamente, dopo avere eseguito una bel po’ di test, sulla carta il tutto funziona da Dio, come il seguente grafico può dimostrare:


test_g


Peccato che, ad oggi, dopo un mese di lavoro, una volta provato sull’apparato, non funzioni una cippa e mandi in crash il computer sul quale lo sto testando. Il capo oggi, molto amichevolmente, mi ha dato due settimane per sistemarlo. Ma settimana prossima è l’ultima prima del mio rientro in Italia per le feste, quindi speriamo di cavare qualche ragno dal buco. Ad ogni modo, questa è la dimostrazione che i duri anni di studio all’università sono serviti a qualcosa, che ho imparato, che sono un bravo ingegnere conscio delle proprie potenzialità e che sa esprimersi al meglio. Avete visto come sono stato bene dentro negli spazi quando coloravo? Non sono però completamente soddisfatto dell’accostamento cromatico, mi mancava il blu ed ho dovuto usare la penna. Per Natale mi regalerò una scatola di pastelli a cera.

Il duro lavoro, in Germania, porta anche dolci soddisfazioni. Come questa:



O un san Nicola di cioccolato Lindth con tanto di “Frohes Fest!” scritto sopra.
Per chi se lo stesse chiedendo: si, la nostra segretaria ci vizia...


Poi, ogni tanto il capo se ne esce con gli orsi...



...oppure con tredicesima e quattordicesima come quest’anno... io preferisco gli orsetti a due mensilità in più all’anno, eh, ma non ha senso stare a discutere. :D


In questi mesi, inoltre, ho anche avuto a che fare con dei pinguini. Purtroppo, o per fortuna, non mi riferisco né a quelli in abito talare e nemmeno ai poveri prigionieri dello zoo di Berlino. Un bel dì arriva un pacco per il mio collega russo con una bella etichetta di questo tipo:





Essendo la scatola delle dimensioni di, boh, un cubo 10x10x10cm, l’idea che possa contenere dei pinguini era alquanto improbabile.
Beh, che stupido,certo è pure scritto sull’etichetta che non ci sono pinguini all’interno. Però magari è un divieto: divieto ai pinguini di portare il frack, c’è anche il papillon! No, non credo.
Vietato appoggiare pinguini sulla scatola! Geniale, magari ci appoggio un cane, un gatto, un tenero koala, ma non un cazzo di pinguino!
No way.
Ci sono! La scatola contiene pericolosi oggetti satanici, non adatta a suore sotto la maggiore età (65 anni).
No non ci siamo: non dare la scatola ai pinguini, potrebbero conquistare il mondo o, chessò, la libertà. Beh potrebbe andare se i pinguini assomigliano a questi qui di lato. Alla fine ho dovuto chiedere qualcuno molto più esperto di me (Google) per capire che il segnale in questione indica che non si deve congelare il l'imballaggio. Mi sarei aspettato un bel fiocco di neve sbarrato, un frigorifero chiuso con il lucchetto, un ghiacciolo al limone su sfondo rosso, ma non un pinguino in frack.

Qualcuno potrebbe ora chiedersi: ma insomma in questi cazzo di sei mesi si può sapere che cosa hai fatto al lavoro? O dobbiamo credere che hai bevuto caffè, sconfitto pinguini, mangiato biscotti, cioccolata e trucidato l’intera popolazione mondiale di orsetti gommosi mentre disegnavi con i pastelli a cera scrivendo (con una calligrafia illeggibile) parole in un inglese maccaronico su un foglio di carta a cui sarebbe di certo piaciuto rimanere un albero pur di non trovarsi costretto ad un utilizzo così infame?

Allora significa che ho fallito, sono un pessimo scrittore, non sono riuscito a spiegarmi, non sono riuscito a trasmettervi chiaramente il risultato del mio così duro ed arduo lavoro.
Potrei chiedere al capo, per una ulteriore conferma, per capire come essere più chiaro, ma rischierei di confondervi ancora di più visto che settimana scorsa ho cambiato i neon in tutti gli uffici, perché ero l’unico alto abbastanza.



Post Scriptum: per chi volesse saperne di più sugli orsetti gommosi consiglio questo post.



... e sémm partii,
cum i tócch de védar de un büceer a tócch,
una vita nœva quänd finiss el maar
mentre qéla vœgia la te pica i scpáll ...