Thursday, March 06, 2014

Il miracolo di Sukhoy Nos.

XIV Contest di scrittura creativa, Labarriera.net.

Il miracolo di Sukhoy Nos.

Alle 5 di mattina, ora di Mosca, eravamo già tutti in sala riunioni con le braccia e le gambe infilate nelle tute speciali nuove di zecca. Sarebbe stata una lunga, memorabile giornata. Eravamo in 7, il massimo che il Tupolev 95V potesse trasportare; io e Yulii gli unici civili. Di quei militari, di quella gente conosciuta la mattina stessa, mi rimane il ricordo solo del Magg. Andrei Durnovstev: pilota, acciaio vero, tutto d’un pezzo; impersonava la propaganda così bene che nemmeno un busto di Lenin avrebbe saputo fare meglio. Sapemmo poi che già allora si faceva chiamare dai suoi commilitoni “Geroy”: EROE. A torto o a ragione, dopo quella missione saremmo diventati tutti “Eroi delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”, con buona pace del mitragliere e del navigatore a cui i due fisici nucleari Andrei Sakharov e Yulii Borisovich avevano soffiato il posto. A noi, due degli inventori di quella macchina mortale, i generali non osarono dire no. L’unica cosa che ci accumunava a quei freddi, meccanici individui che sulla tuta di volo avevano cuciti i gradi era la scelta volontaria di essere a bordo di quell’aereo. Nessuno, né i fisici, né gli ingegneri, nemmeno le stellette del generale Pavlov (che avrebbe coraggiosamente assistito alle operazioni da 1000km di distanza) potevano garantire che avremmo rimesso i piedi a terra. Da parte nostra eravamo con la coscienza a posto; ci fidavamo dei nostri calcoli e previsioni e simulazioni, ma era l’eccitazione data dalla curiosità ad avere annullato la paura.

Nel giro di due ore eravamo in volo con la base di Olenya alle spalle, sopra i kilometri di mare aperto che ci separavano da quello che gli americani amano chiamare “Ground Zero”: la penisola Sukhoy Nos in pieno oceano artico. Il bombardiere a lungo raggio modificato viaggiava lento a causa del suo carico di morte che non sarebbe stato stivato nemmeno a colpi di proletarissimi falce e martello. Vanya, coi suoi 8 metri e due stadi era appesa tra carrello e fusoliera. 27 tonnellate per 50 megatoni. Un diametro di 2 metri per la più potente bomba H della Storia. 3000 volte la bomba sganciata su Hiroshima. La sua forma era brutta, tozza, da cartone animato, di un grigio opaco che si stagliava nitido contro il munsen dell’aereo, il bianco detto antiflash che ci avrebbe salvato dall’ardere vivi nella fusoliera. I gerarchi pretendevano l’esagerazione: per mostrare al mondo che la grande Madre Russia non aveva rivali, ne pretendevano 100 di megatoni. Fummo noi fisici a ridimensionare il tutto a 50, con esplosione in volo, non a terra onde evitare uno sciame sismico paragonabile a un 9° grado Richter. La propaganda aggiustò la cifra a 65.

La velocità di crociera, ridicola per quell’aviogetto, era dettata dalla precarietà del carico; le turboeliche ronzavano sonoramente mentre io e Yulii ci ritrovammo stipati nel comparto di coda, il posto migliore per vedere il risultato del nostro lavoro. Avremmo sganciato sulla via del ritorno, avendo pochi minuti per darcela a gambe levate prima che l’onda d’urto ci colpisse e l’enorme paracadute facesse il suo mestiere rallentando abbastanza la caduta dell’ordigno. Alle 11. 24 il Maggiore ordinò di mettersi in posizione di sgancio e di indossare gli occhiali schermati. Gli aerei di supporto con le troupe di ripresa si erano già portati a distanza di sicurezza e alle 11. 26 del 30 Ottobre del 1961 il dito del pilota si pose sul rosso pulsante di scarico; alcuni millisecondi più tardi i ganci che ancoravano la bomba al nostro ventre di metallo si aprirono. Non passò un attimo che Durnovstev, l’Eroe, buttò il muso verso il basso, in picchiata, al fine di raggiungere il prima possibile la massima velocità che le giunture di quel Tupolev sarebbero state in grado di sopportare. Avevamo 6 minuti per mettere più strada possibile tra noi e l’inferno atomico che si sarebbe scatenato alle nostre spalle. Erano le 11. 32, quando le nuvole sotto l’aeroplano furono illuminate da un potentissimo lampo di luce bianca. Quel mare di luce si allargava sotto la fusoliera inghiottendo perfino i nembi più scuri, rendendoli luminosi al punto che quasi sembravano trasparenti. In quel momento il nostro aereo emerse nello spazio tra due nubi e più sotto, vedemmo in lontananza che una enorme palla arancione emergeva dal suolo, potente ed arrogante come Giove. Lentamente e silenziosamente avanzava e cresceva; pareva voler inghiottire il mondo intero. Dopo alcuni, interminabili secondi, ci colpì l’onda d’urto e udimmo un indistinto, remoto e pesante frastuono, come se la Terra fosse stata uccisa. L’aereo perse più di un kilometro di quota e la tempesta elettromagnetica interruppe le comunicazioni; diventammo Eroi, ma il mondo ci benedisse con un ora di ritardo, quando la consapevolezza che eravamo sopravvissuti, li raggiunse assieme alle nostre prime onde radio. Fu uno spettacolo fantastico, irreale, sovrannaturale. Quel giorno fui a un passo da un Dio, ne sono sicuro. Avevamo passato il segno, avevamo superato il limite del terrore, dell’odio fine a se stesso. Quel momento, quella palla di luce e fuoco e distruzione che sembrava voler divorare il cielo, lo spazio, la terra e non finire mai, cambiò il senso della mia vita; mi vidi diventare contrario, attivista, pacifista.

E. C.

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